L’esodo degli arabi palestinesi da Israele

Rifugiati arabi palestinesi. Immagine tratta dalla copertina del libro "The Birth of the Palestinian Refugee Problem" di Benny Morris

La prima guerra arabo-israeliana, come già detto, iniziò il giorno stesso della proclamazione della Repubblica di Israele, il 14 maggio del 1948, con l’attacco di cinque eserciti arabi al neonato Stato. Già prima di allora gli arabi palestinesi avevano iniziato una rivolta contro la presenza ebraica nella regione, a partire dagli anni ‘20, intensificandosi negli anni ‘30 e toccando l’apice in seguito alla risoluzione ONU n. 181 del 1947, che prevedeva la spartizione della Palestina in due Stati (uno ebraico e l’altro arabo). L’escalation delle violenze diede luogo ad una vera e propria guerra civile, prima ancora dunque della formale dichiarazione di indipendenza dello Stato ebraico.

La prima guerra arabo-israeliana terminò nel 1949 con la firma di due armistizi, uno con l’Egitto e l’altro con la Giordania, che vedevano Israele estendersi oltre i confini assegnatigli dall’ONU nel 1947. Ma a risentire della guerra furono soprattutto le popolazioni arabe ed ebraiche, non solo della regione ma anche degli Stati arabi confinanti, che dovettero in larga parte emigrare dai luoghi in cui risiedevano.

Mentre i profughi ebrei furono accolti in Israele e, seppur faticosamente, furono integrati nella popolazione, la vita degli arabi palestinesi nei paesi in cui si erano riversati era invece assai difficile dato che questi furono ammassati in enormi campi profughi e non fu loro riconosciuta la cittadinanza. Ancora oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, la loro situazione è rimasta praticamente immutata; di conseguenza, mentre quello che avvenne alle comunità ebraiche dei vari paesi arabi è ormai considerato come un evento passato (di cui spesso però si dimentica), quello che avvenne agli arabi palestinesi è ancora considerato un tema di attualità. Soprattutto perché ancora oggi se ne chiede il rientro e il “reintegro” all’interno di Israele.

Profughi arabi di HaifaOggi l’opinione pubblica è divisa nettamente tra chi è a favore della causa israeliana e chi della causa palestinese (cioè degli arabi di Palestina con aspirazioni nazionalistiche). A seconda che si sostengano i propositi arabi di reintegro o quelli israeliani, secondo cui i profughi dovrebbero invece essere integrati nei paesi in cui emigrarono, si ripensa a ciò che avvenne in passato, spesso leggendo gli eventi in base ai propri punti di vista, per rafforzarli e giustificarli: chi appoggia la controparte araba è portato ad affermare gli arabi palestinesi furono cacciati dagli israeliani con una premeditata e sistematica campagna di espulsione e, quindi, da loro costretti ad abbandonare le loro terre (il loro esodo fu denominato Nakba, cioè “catastrofe”); chi invece appoggia la controparte israeliana sostiene che gli arabi palestinesi furono spinti dalla stessa propaganda della dirigenza araba ad abbandonare le loro terre, con la promessa che presto gli ebrei sarebbero stati cacciati e vi avrebbero potuto far ritorno. Questo per mettere in difficoltà lo Stato ebraico, giustificare l’invasione araba del 15 maggio e preparare materialmente il terreno all’avanzata delle forze arabe di invasione. A sostegno di tale lettura storica, si fa presente che di fatto molti arabi rimasero in Israele, e fu loro riconosciuta la cittadinanza, di cui esiste la prova vivente ancora oggi.

Ma indipendentemente dai propri punti di vista personali sulla questione, come sono andate effettivamente le cose? Perché molti arabi abbandonarono Israele? Perché altri rimasero? La questione è decisamente più complessa di quanto le diverse propagande vogliano far sembrare. Cerchiamo di chiarire questo aspetto fondamentale e controverso della storia mediorientale.


La nuova storiografia israeliana
Israele, sin dalla sua nascita, ha subìto enormi cambiamenti, sia dal punto di vista della crescita demografica e territoriale, sia dal punto di vista della mentalità collettiva: governi di stampo socialista e di sinistra si sono alternati ad altri più conservatori e nazionalisti. Oggi è uno Stato liberale di impostazione laica ed individualista, un po’ come tutto l’Occidente.

Anche la storiografia nazionale ha subìto una enorme trasformazione: in precedenza era legata alla stessa ideologia sionista e quindi volta a difendere la “ragion di Stato” ancor prima che a perseguire la verità, per ovvi motivi di sopravvivenza dettati dai tempi; ma in anni recenti c’è stata un’ondata di revisionismo all’interno di Israele, che ha messo in dubbio molti aspetti della storia in precedenza dati per certi, suscitando talvolta anche le ire di molti israeliani, nonché addirittura qualche sospetto di connivenza con i nemici del paese.

Tale rivoluzione storiografica è stata ulteriormente favorita dalle modifiche di una legge israeliana che precedentemente impediva l’accesso a numerose fonti militari archiviate: questo diede modo ad alcuni studiosi di consultare documenti prima di allora inaccessibili, e di venire così a conoscenza di numerosi dettagli interessanti riguardo ciò che accadde alla fine degli anni ‘40, un periodo chiave della storia mediorientale. Era la nascita della cosiddetta nuova storiografia.

Benny MorrisIl personaggio considerato come il più autorevole di questa corrente revisionista è senz’altro Benny Morris. Per i suoi scritti viene spesso accusato, di fare il gioco del nemico; fu persino condannato a tre settimane di prigione nel 1988 per aver rifiutato di prestare servizio militare presso Nablus. La sua opera principale, pubblicata nel 1988, fu The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949: in essa Morris, sulla base dei documenti a cui aveva avuto accesso, “smitizzò” la storia israeliana rivelandone dettagli fino ad allora sconosciuti o ignorati. Coloro che ancora oggi hanno una posizione critica nei confronti della politica israeliana citano spesso le sue conclusioni, per evidenziare le responsabilità dello Stato ebraico nel conflitto in corso: spesso dimenticando però che, come l’autore stesso ci tiene a precisare, ad ogni modo l’esodo degli arabi fu la diretta conseguenza della guerra che essi stessi, insieme alle dirigenze degli Stati confinanti, avevano scatenato. Per Morris infatti il problema dei profughi era un qualcosa di “praticamente inevitabile”, vista l’intenzione del sionismo di creare uno Stato ebraico in una terra in gran parte abitata da arabi e data la loro contrarietà al progetto sionista: addirittura lo storico arriva ad affermare che, senza una completa separazione tra questi ultimi e gli ebrei, “ci sarà una guerra perpetua finché uno dei due popoli rivali verrà gettato in mare o nel deserto”. Una posizione, dunque, completamente contraria rispetto a quella secondo cui la fine del conflitto si può ottenere solo con la creazione di un unico Stato bi-nazionale per israeliani e palestinesi; che però non basta a risparmiargli le critiche e le accuse di molti suoi connazionali e non solo.

Lo storico Ephraim Karsh, molto critico con le revisioni storiche della nuova storiografia israeliana. I suoi libri non sono stati tradotti in italiano.Molte opere di Morris, nonché di tutta la letteratura della Nuova storiografia, tuttavia furono criticate e addirittura in parte smentite da altri storici, tra cui spicca Ephraim Karsh. In seguito a ciò Morris dovette ammettere di aver commesso numerosi errori e, almeno in parte, ritrattò molte parti (ma non tutte) dei suoi scritti.

Una delle opere che riassumono gli studi storiografici di Benny Morris è 1948, Israele e Palestina tra guerra e pace (1948 and after, Israel and Palestinians, scritta nel 1990 e seguita da nuove edizioni): tutte le informazioni che seguiranno nei paragrafi successivi di questo capitolo sono tratte e rielaborate liberamente da questo testo, tenendo però conto delle correzioni effettuate da altri storici come Ephraim Karsh; per provare a ricostruire l'accaduto e capire le origini della fuga degli arabi da Israele, che, come già detto, è uno degli argomenti chiave del conflitto in corso.


Il concetto di divisione tra ebrei ed arabi: il “trasferimento”
Da qualche anno si è tornato a parlare in Israele di “trasferimento”, l’idea, propugnata dai partiti più intransigenti di destra, che propone come soluzione al conflitto l’espulsione coatta da Israele dell’intera popolazione araba o di quella parte che ancora oggi non riconosce il paese come Stato ebraico.

Quella del trasferimento non è un’idea nuova e, pur con tutti i distinguo, affonda le radici nella storia del sionismo. La sua formulazione fu semplicemente l’inevitabile corollario di un ragionamento dalla logica ferrea: non era possibile ipotizzare l’esistenza di uno Stato ebraico in Palestina, o in una sua parte, fino a quando al suo interno vi sarebbe stata la presenza di una popolazione araba che ne osteggiava la nascita e che avrebbe pertanto costituito una quinta colonna, reale o potenziale, contro tale ipotesi; e dal momento che il sionismo riteneva la fondazione dello Stato ebraico una necessità per la stessa sopravvivenza degli ebrei di tutto il mondo, per raggiungere lo scopo si considerava inevitabile una divisione netta tra le popolazioni della regione, anche se questo avesse dovuto tradursi in vere e proprie espulsioni di massa. Questa logica fu sposata ed enunciata sin da prima del 1948 da funzionari e leader sionisti, ma anche arabi e britannici.

Ecco secondo Theodor Herzl, profeta e fondatore del movimento sionista, come avrebbe dovuto svolgersi la colonizzazione. Il seguente passaggio (prima in inglese, poi tradotto in italiano) è tratto dal suo diario (12 giugno 1895) e si riferisce anche alla possibilità in cui lo Stato ebraico fosse stato fondato in Argentina e non in Palestina.

“When we occupy the land, we shall bring immediate benefits to the state that receives us. We must expropriate gently the private property on the estates assigned to us. We shall try to spirit the penniless population across the border by procuring employment for it in the transit countries, while denying it any employment in our country. The property owners will come over to our side. Both the process of expropriation and the removal of the poor must be carried out discretely and circumspectly […] It goes without saying that we shall respectfully tolerate persons of other faiths and protect their property, their honor, and their freedom with the harshest means of coercion. This is another area in which we shall set the entire world a wonderful example […] Should there be many such immovable owners in individual areas [who would not sell their property to us], we shall simply leave them there and develop our commerce in the direction of other areas which belong to us”.

“Quando occuperemo la terra, dovremo portare immediati benefici allo Stato che ci riceve. Dobbiamo espropriare delicatamente la proprietà privata nelle zone a noi assegnate. Dovremo cercare di incentivare la popolazione più povera a spingersi oltre i nostri confini, procurando loro lavoro nei Paesi confinanti e al tempo stesso negando loro qualsivoglia opportunità di impiego nel nostro. I proprietari saranno dalla nostra parte. Il processo di espropriazione e di rimozione dei poveri dovrà essere condotto con discrezione e circospezione […] E’ implicito che dovremo tollerare le persone di altre fedi e proteggere le loro proprietà, il loro onore e la loro libertà con i più efficaci mezzi di coercizione. Questo è un altro luogo in cui dovremo dare uno splendido esempio al mondo […] Ci saranno anche alcuni proprietari irremovibili in alcune singole zone [che non vorranno venderci la loro proprietà], dovremo semplicemente lasciarli dove sono e sviluppare il nostro commercio altrove”.

Negli anni ‘30 la situazione si era cristallizzata sotto gli attacchi di bande armate di arabi contro le autorità del Mandato britannico e i coloni sionisti. La Ribellione Araba (1936-39) intendeva mettere fine con la forza all’immigrazione ebraica della Palestina ed espellere i suoi, fino ad allora, protettori britannici. Per indagare sui disordini fu istituita una commissione presieduta da Lord Peel, che nel luglio 1937 pubblicò il suo rapporto. Peel non fu in grado di sottrarsi alla logica del trasferimento: la commissione raccomandava la suddivisione del territorio della Palestina tra i suoi abitanti ebrei e arabi, suggerendo di evacuare 225 mila arabi dal 20 per cento del territorio destinato alla sovranità ebraica (e quantità minima di ebrei che occupavano le aree destinate alla popolazione araba e che pertanto avrebbero dovuto essere trasferiti nei territori dello Stato ebraico). Per una soluzione “pulita e definitiva” della questione palestinese era necessario il trasferimento, sentenziò la commissione.

L’idea del trasferimento, che trovò il sostegno dei leader sionisti Ben-Gurion e Weizmann, trovava ulteriore linfa vitale come l’unica soluzione possibile a causa sia della ribellione araba che della dilagante diffusione delle persecuzioni antisemite in Europa, preludio della Shoah: il bisogno di un rifugio sicuro per gli ebrei in Palestina era diventato una questione stringente. Ben-Gurion salutò favorevolmente le raccomandazioni di Lord Peel, aggiungendo:

“non è nostra intenzione espellere, [ma] in passato si sono verificati movimenti [graduali] della popolazione [attraverso operazioni di acquisto da parte di ebrei e con l’espulsione di coloni arabi] nella valle [di Jezreel], nella Sharon e in altri luoghi […]. Ora occorre realizzare un piano di trasferimento che si ponga un obiettivo completamente diverso […]. E’ il trasferimento ciò che renderà possibile mettere in atto un programma compiuto di colonizzazione [ebraica]. Grazie a Dio, gli arabi possono contare su vaste aree disabitate [in Transgiordania e in Iraq]. E con il continuo consolidamento del potere ebraico aumenteranno le possibilità di realizzare il pieno trasferimento su vasta scala”.

Ma i leader sionisti non erano gli unici a essere convinti che il trasferimento rappresentasse la soluzione alla questione palestinese e a quella della partizione della Palestina. Nel luglio del 1948, a metà della prima guerra arabo-israeliana, quando ormai circa 400 mila arabi erano stati allontanati dalle loro case, Ernest Bevin, ministro degli Esteri britannico (di certo non un esponente del movimento sionista), scrisse:

“Osservando la situazione da una prospettiva a lungo termine […] si potrebbero trovare argomentazioni a favore di uno scambio di popolazioni rispettivamente tra le aree assegnate agli arabi e quelle destinate agli ebrei […] Si potrebbe affermare che l’allontanamento di un significativo numero di arabi dai territori sotto l’amministrazione ebraica abbia semplificato il compito di giungere a un’occupazione stabile della Palestina, se consideriamo che il trasferimento di abitanti sembra essere, ahimè, una condizione essenziale per raggiungere tale obiettivo”.

Pochi giorni dopo dall’ufficio centrale dell’intelligence britannica in Medio Oriente (British Middle East Office) puntualizzò:

“La fuga scomposta degli arabi dai territori della Palestina occupati dagli israeliani ha rappresentato momentaneamente un problema decisamente serio, ma verosimilmente potrebbe portare a una soluzione nel tempo di una efficace ripartizione dei territori, in altre parole la formazione all'interno dello Stato ebraico di una comunità araba numericamente paragonabile alla popolazione ebraica. [...] Ora che è stato superato l'ostacolo iniziale di persuadere gli arabi palestinesi a lasciare le loro case [...] sembra verosimile immaginare che la soluzione possa essere rappresentata dal loro trasferimento in Iraq e in Siria”.

Alla fine della guerra del 1948 qualcosa come 700 mila arabi furono sfollati, diventando a pieno titolo quello che la terminologia moderna definisce rifugiati. Secondo le Nazioni Unite oggi sono circa quattro milioni i “rifugiati” palestinesi, dove con questo termine si intendono anche i discendenti di coloro che nel 1948 si trasferirono dal territorio israeliano. Tuttavia, le intuizioni di Bevin e del British Middle East Office, in base alle quali il trasferimento in massa suggeriva la via verso una "soluzione" della questione palestinese, non fu affatto un'improvvisa scoperta a metà del conflitto. Già agli inizi e a metà dello stesso decennio tanto i leader arabi quanto i più importanti funzionari britannici avevano capito che il trasferimento (inteso come una misura di accompagnamento della suddivisione dei territori) offriva una via d'uscita alla situazione di impasse.

Il generale John Glubb, comandante inglese (1939-56) della Legione Araba - l'esercito della Transgiordania - riteneva assolutamente impossibile eludere una soluzione alla questione che non fosse quella di una netta separazione dei territori, e che fosse più opportuno trasferire insieme tutta la popolazione araba o in zone a esclusiva presenza araba, o fuori dalla Palestina. Nel luglio del 1946 abbozzò A Note of Partition as a Solution to the Palestine Problem. In essa scriveva:

“Forse il sistema migliore sarebbe quello di definire un limite temporale entro il quale coloro che si trovano fisicamente in uno Stato o nell'altro contro la loro volontà abbiano la possibilità di optare per la cittadinanza dell'altro Stato [...]. Questo naturalmente non vuole essere un sistema concepito per espellere gli arabi [...] con la forza, ma semplicemente vuole far sì che se queste persone vengono lasciate indietro e si ritrovano in uno Stato ebraico, contemporaneamente si possano aprire nello Stato arabo buone prospettive e posti di lavoro ben retribuiti [...]”.

Nel passaggio precedente il generale Glubb sembra parlare di un trasferimento "volontario". Tuttavia in una nota successiva, alcune settimane dopo, si spinse a prospettare l'accettazione di una serie di misure coercitive:

“Una volta che siano state svuotate di tutti i membri dell'altra comunità tanto le aree inconfutabilmente arabe quanto quelle innegabilmente ebraiche [...] si dovrebbe fare tutto il possibile per organizzare scambi di terre e popolazioni, in modo che rimanga il minor numero possibile di persone da risarcire con denaro”.

Lord Moyne, rappresentante permanente della Gran Bretagna in Medio Oriente, riferì che sia Tariq Abdul Huda, primo ministro della Transgiordania, sia Mustafa Nahas Pasha, primo ministro egiziano, ritenevano, in modo analogo a quanto sostenuto da Glubb, che “una soluzione definitiva possa essere raggiunta solo attraverso la separazione”. In seguito Alec Kirkbride, rappresentante britannico ad Amman e politico ben informato, riferiva che tanto il successore di Abdul Huda, Ibrahim Pasha Hashim, quanto re Abdullah di Transgiordania, sostenevano entrambi la tesi della separazione:

“[Hashim aggiunse che] la sola soluzione adeguata e definitiva è quella di una separazione completa, con uno scambio di popolazioni: la permanenza di ebrei in uno Stato arabo in uno Stato arabo o di arabi in uno Stato ebraico creerebbe inevitabilmente ulteriori problemi [...]. Ibrahim Pasha ammise che non avrebbe potuto esprimere pubblicamente questa sua convinzione per paura di essere accusato di tradimento”.

Dunque, durante e prima del 1948 fu chiara a tutti la logica sottesa all'idea del trasferimento: alla luce della ferma opposizione da parte degli arabi all'idea stessa e alla nascita di uno Stato ebraico, questo non poteva, e non avrebbe mai potuto, costituire un'entità in grado di sopravvivere a lungo, senza l'espulsione del grosso della popolazione araba.

Nondimeno, il trasferimento avvenuto nel 1948 fu incompleto: la stragrande maggioranza della popolazione rimase in Palestina ed anche in Israele. Cosa che contribuì inevitabilmente, tra le altre cose, alla persistenza della questione fino ai giorni nostri.


L’esodo degli arabi palestinesi: espulsione o fuga?
Alla luce di tutte queste premesse, vediamo ora di analizzare le cause della nascita della questione dei profughi palestinesi.

Nella sua opera 1948, Israele e Palestina tra guerra e pace Benny Morris cita un documento intitolato L’emigrazione degli arabi della Palestina nel periodo 1/12/1947-1/6/1948. Questo documento è datato 30 giugno 1948 e fu prodotto dal servizio segreto militare israeliano nelle settimane iniziali della Prima Tregua (11 giugno - 9 luglio) della guerra del 1948. L’autore del rapporto è Moshe Sasson, assistente del direttore del Dipartimento arabo del servizio segreto e il suo fine sembra quello di analizzare in modo obiettivo e analitico la questione dei profughi palestinesi a scopi meramente militari (anche se nel testo questo non è specificato esplicitamente, così come non è specificato chi lo abbia commissionato).

Il documento è in due parti, dattiloscritto su fogli protocollo ciclostilati. Il testo è di nove pagine, con un’Appendice di quindici e analizza il numero dei rifugiati, le tappe dell’esodo, le sue cause, la destinazione delle comunità di profughi, nonché le difficoltà iniziali dell’assorbimento nelle località ospitanti. L’Appendice, suddivisa per distretti, ricostruisce – villaggio per villaggio – date cause e destinazioni degli spostamenti, e numero di emigranti.

Nel rapporto era presente un elenco di quelli che il servizio segreto dell’IDF considerava, nel giugno 1948, i fattori che avevano accelerato l’esodo, citandoli “in ordine di importanza”.

  1. Le operazioni ostili dirette dalle forze ebraiche [Haganah/IDF] contro gli insediamenti arabi.
  2. Gli effetti delle nostre [Haganah/IDF] operazioni ostili nelle vicinanze di insediamenti arabi […] ([…] in modo particolare, la caduta di importanti centri abitati nelle vicinanze).
  3. Le operazioni di forze [ebraiche] dissidenti [Irgun Zvai Leumi e Lohamei Cherut Ysrael].
  4. Gli ordini e le disposizioni di istituzioni arabe e di bande [di irregolari arabi].
  5. La diffusione di voci da parte ebraica [guerra psicologica] per spaventare gli abitanti di etnia araba e spingerli ad andarsene.
  6. Gli ordini tassativi di evacuazione [da parte di forze ebraiche].
  7. La paura [di rappresaglie] da parte degli ebrei, [in seguito] a massicci attacchi agli ebrei da parte degli arabi.
  8. La comparsa di bande [di irregolari arabi] e di combattenti non-locali nei pressi dei villaggi.
  9. La paura di un’invasione araba e delle sue conseguenze [soprattutto vicino ai confini].
  10. La situazione di isolamento di alcuni villaggi arabi in aree prevalentemente ebraiche.
  11. Vari fattori locali e generiche preoccupazioni per il futuro.

Il servizio segreto procede quindi a un esame particolareggiato e alla spiegazione di questi fattori, che andiamo a riassumere di seguito.

  1. Circa il 55% del totale dell’esodo, secondo il documento citato da Benny Morris nel suo libro, è stato causato dalle operazioni militari israeliane e dalle loro ripercussioni: nel senso che laddove gli eserciti ebraici ed arabi si scontravano la popolazione abbandonava le proprie abitazioni, emigrando, per scampare ai combattimenti. Un chiaro segnale di questo è costituito dal fatto che all’aumento delle operazioni israeliane nel mese di maggio (in seguito all’attacco subìto dagli Stati arabi dopo la proclamazione di indipendenza) corrisponde anche un aumento delle ondate di emigrazione nei distretti interessati dai combattimenti. Questo anche in seguito alla partenza dei britannici avvenuta proprio in quel periodo, che ha lasciato maggiore libertà di azione all’Haganah prima e all’IDF poi. Non in tutti i luoghi in cui si verificarono i combattimenti vi fu questo tipo di emigrazione, perché talvolta l’esercito israeliano concludeva accordi locali con singoli villaggi.
  2. Spesso un attacco a un villaggio o a una città influenzava i vicini centri abitati. “L’evacuazione di un villaggio a causa di una nostra offensiva era spesso seguita da quella dei villaggi circostanti”, si legge nel rapporto. Questo specialmente in caso di caduta di grossi villaggi e città, come Tiberiade, Safad, Samakh, Giaffa, Haifa e Acri, che furono seguite da diverse ondate di emigrazione.
  3. Circa il 15% dell’emigrazione araba sarebbe dovuto agli effetti delle operazioni delle organizzazioni ebraiche dissidenti come l’Irgun e il Lehi, anche se queste ebbero speciale importanza nell’area di Giaffa-Tel Aviv, nella parte settentrionale della pianura costiera e intorno a Gerusalemme, in particolar modo in seguito alla strage di Deir Yassin e al sequestro di cinque notabili arabi avvenuto a nord di Tel Aviv. “Altrove, esse non hanno avuto effetti particolari sull’emigrazione araba” si legge nel documento.
  4. Secondo il rapporto del servizio segreto, circa il 5% delle evacuazioni dei villaggi è dovuto a ordini e disposizioni di capi arabi locali, militari e civili, dell’Alto Comitato arabo e del governo della Transgiordania. Simili ordini erano impartiti per “ragioni strategiche […] come l’intenzione di fare di un villaggio una base per operazioni armate contro gli ebrei, la convinzione che la sua difesa fosse impossibile, e il timore che si trasformasse in una quinta colonna anti-araba, soprattutto se un villaggio aveva concluso un accordo con gli ebrei”. Quest’ultima causa ebbe particolare importanza nell’area di Gilbo’a, nella regione del Mare di Galilea, nel distretto di Tel-Hai lungo il confine siriano, e nella zona di Gerusalemme.
  5. Le operazioni ebraiche di diffusione di voci (guerra psicologica) fu all’origine del 2% circa dell’emigrazione su scala nazionale. In alcune regioni la diffusione di voci allarmistiche ebbe un notevole impatto, soprattutto nel distretto di Tel-Hai, dove “l’operazione fu effettuata in modo deliberato, su scala relativamente ampia e in modo organizzato”. L’operazione – spiega il rapporto – fu portata avanti sotto forma di “consigli amichevoli” degli ebrei ai vicini arabi con cui erano in buoni rapporti.
  6. Alla categoria degli ordini di espulsione dai villaggi arabi da parte di forze ebraiche poteva essere attribuito, secondo il rapporto, intorno al 2% del totale dei villaggi evacuati. Simili ordini avevano avuto particolare rilevanza nella pianura costiera; meno nel distretto di Gilbo’a e meno ancora nel Negev. “Naturalmente gli effetti di [simili] ultimatum, come gli effetti dei ‘consigli amichevoli’, arrivavano solo dopo una certa preparazione del terreno consistente in operazioni ostili [delle forze ebraiche] nelle aree [interessate]. Quindi, gli anzidetti ordini [di espulsione] hanno [il carattere] di spinte e motivazioni che colmano la misura, più che quello di un fattore [di per sé] decisivo”.
    Si potrebbe annoverare a questa categoria anche l’emigrazione araba in seguito all’attacco israeliano dell’11 luglio 1948 (avvenuto dopo la stesura del documento che stiamo analizzando), effettuato nel quadro dell’Operazione Dani, con lo scopo liberare il cosiddetto corridoio di Gerusalemme: la città araba di Lydda fu occupata dalla Brigata Yiftah e il giorno successivo intervenne la Legione Araba in sua difesa. Anche parte della popolazione residente, armata, iniziò a rivoltarsi prendendo di mira le forze israeliane, che risposero provocando la morte di ben 250 persone. Il 12 luglio, prima che a Lydda gli scontri fossero cessati del tutto, il tenente colonnello Yitzhak Rabin, comandante dell’Operazione Dani, emise l’ordine di evacuazione della città, “senza riguardo per l’età”. Un ordine analogo fu impartito nello stesso momento dalla Brigata Kiryati a proposito degli abitanti della vicina città di Ramle. Tra il 12 e il 13 luglio furono espulsi circa 60 mila abitanti delle due città, che durante l’intera guerra erano state di ostacolo al traffico ebraico sulla principale arteria Tel Aviv-Gerusalemme, e che erano considerate dai leader dell’Yishuv una perpetua minaccia per la stessa Tel Aviv.
    Anche dopo la guerra, nel 1950, furono evacuati gli arabi di una città: si trattava di Majdal, il cui nome in seguito fu modificato in Migdal-Gad. I motivi che spinsero a questa decisione furono principalmente per questioni di sicurezza interna. Gli esuli si riversarono nella Striscia di Gaza.
  7. Un altro 1% di emigrazione fu causato, secondo il rapporto, dalla paura di rappresaglie ebraiche in seguito ad atti ostili degli arabi contro gli ebrei. Questo fattore avrebbe avuto importanza in Galilea occidentale (dopo un’imboscata araba al convoglio di Yehiam) e in seguito agli attacchi di aprile al Kibbutz Mishmar Ha-Emek (nella valle di Jezreel) e al Kibbutz Ghesher (valle del Giordano): in seguito a questi eventi si registrarono fughe di arabi dalle zone circostanti per paura di eventuali ritorsioni ebraiche.

Le successive categorie, numero 8, 9 e 10 – la comparsa di forze arabe irregolari in un villaggio, la “paura di un’invasione araba e delle sue conseguenze” e la “situazione di isolamento di alcuni villaggi arabi in aree prevalentemente ebraiche” – contribuirono insieme all’1% dell’emigrazione.

Il rapporto, nell’ultima categoria, menziona anche due altre cause dirette di fuga: il “generico stato di timore” e i “fattori locali”. Al timore generico che “ha avuto una grande influenza e un grande peso per quanto riguarda l’esodo” è attribuito un 10% circa dell’emigrazione. A tale proposito, il rapporto menziona le ondate iniziali di emigrazione, all’inizio delle ostilità, non riconducibili “a prima vista, a cause particolari”. Tali ondate sarebbero dipese dal “timore generalizzato”, determinato soprattutto “dalla crisi di fiducia nella forza degli arabi”. Perciò il servizio segreto colloca tale “crisi di fiducia” al “terzo posto per importanza” dopo le operazioni dell’Haganah e dell’IDF nella genesi dell’esodo arabo. Il rapporto sostiene inoltre che l’8-9% delle partenze dipese da “fattori locali”, come il fallimento, in luoghi specifici, di trattative per porre fine alle ostilità tra arabi ed ebrei, e l’“incapacità di adattarsi ad alcune situazioni concrete”.

Conclusa l’analisi statistica, il rapporto passa ad alcuni “commenti generali”, individuando un certo numero di fattori che avrebbero contribuito, direttamente o indirettamente, a precipitare, incrementare o accelerare le ondate di emigrazione in varie aree e in diversi momenti. Tra essi viene menzionata la “psicosi dell’evacuazione” che si impadronì di numerose comunità arabe durante le ostilità “aumentando la consistenza dell’esodo”. Gli ebrei rimanevano spesso stupiti della relativa facilità con cui si riusciva a provocare lo spostamento di una buona parte di popolazione, ma non sempre era così. L’Alto Comitato arabo impose dei divieti, formulò minacce, promise punizioni e diffuse propaganda tramite la radio e la stampa nel tentativo di arginare l’emigrazione. Ma le misure adottate in tal senso non si rivelarono molto efficaci, anzi provocarono un aumento della corruzione, in quanto i funzionari arabi cominciarono a chiedere compensi illeciti per rilasciare permessi a chi voleva lasciare la Palestina.

Mappa dell'esodo arabo da Israele tratta dal libro di Benny Morris "1948, Israele e Palestina tra guerra e pace"

Questo rapporto citato da Benny Morris, anche se riguardante un periodo storico limitato, offre un quadro piuttosto chiaro della situazione di tutto l’esodo palestinese: questo evidentemente non fu deliberato o decretato ufficialmente su base nazionale e uniforme, ma avvenne su base locale a seconda dell’ostilità della popolazione o delle necessità strategiche e talvolta avvenne senza che nemmeno la dirigenza dell’Yishuv lo prevedesse. Se a Tiberiade ad esempio Morris, citando i diari di Yosef Nachmani (un membro del consiglio municipale della città), afferma che l’esodo fu provocato per lo più dalla violenza dell’esercito israeliano, si apprende dalla medesima fonte che al contrario ad Haifa le forze ebraiche difesero gli arabi dai saccheggi effettuati nelle loro proprietà da una parte della popolazione ebraica. Allo stesso modo non si può neppure dire che tutto l’esodo avvenne a causa della propaganda araba che invitava i civili alla fuga.


Yosef WeitzYosef Weitz e i Comitati di trasferimento
Mentre l’Yishuv festeggiava la Risoluzione ONU sulla partizione della Palestina del 1947, molti suoi leader riflettevano sulla guerra che ne sarebbe scaturita e sul principale problema del nascente Stato ebraico: il fatto che gli arabi rappresentavano quasi il 45% della popolazione nelle zone riservate al focolare ebraico indipendente. Era il “problema arabo”.

Di lì a poco tempo si vide come la guerra stava provocando un esodo di dimensioni maggiori di quelle auspicate: si ebbe dunque la sensazione che un’enorme rivoluzione demografica nella regione fosse possibile e che bisognasse sfruttare la situazione. Yosef Weitz, il direttore del Dipartimento dei terreni del JNF, fu uno dei più attivi nel voler consolidare l’esodo degli arabi rendendo più difficile il loro ritorno anche dopo la guerra del 1948-49. Tuttavia la sua azione, alla fine, si rivelò molto limitata rispetto alle sue aspettative.

Per due volte istituì degli specifici Comitati di trasferimento con la funzione di alimentare quanto possibile le fughe degli arabi (anche con misure intimidatorie nei loro confronti); ma soprattutto di consolidare la colonizzazione della Palestina da parte della popolazione ebraica nei territori conquistati in guerra rendendo impossibile l’eventuale ritorno dei profughi dopo la fine delle ostilità.

La prima volta il suo Comitato fu auto-nominato e persino attivo in alcune zone, dove contribuì all’evacuazione di alcuni villaggi e città. Questo in attesa di un riconoscimento ufficiale da parte del governo presieduto da David Ben-Gurion che, nonostante le promesse, tardava ad arrivare: il Presidente del neonato Stato di Israele agli occhi di Weitz sembrava essere tacitamente d’accordo con le finalità che il Comitato perseguiva, pur volendo restarne ufficialmente estraneo; questo anche perché il suo partito politico di stampo socialista, il Mapai (“Mifleget Poalei Eretz Israel”, cioè “Partito dei lavoratori di Israele”) era al governo insieme al partito di sinistra del Mapam (“Mifleget HaPoalim HaMeuhedet” cioè “Partito dei Lavoratori Uniti”), da sempre contrario all’esodo forzato degli arabi palestinesi dal paese. Inoltre Ben-Gurion era sempre impegnato a rendere conto all’ONU (fermamente contraria a qualsiasi espulsione) circa l’operato delle sue forze militari e, più in generale, si preoccupava anche della reputazione storica che lo Stato ebraico avrebbe potuto avere nel futuro se avesse tenuto una politica di allontanamento degli arabi dal suo territorio. Il primo Comitato di trasferimento, dunque, decadde quasi subito: durò dalla fine di maggio al giugno del 1948.

Vi fu un secondo tentativo da parte di Weitz di fondare un organismo atto a favorire l’emigrazione degli arabi. Questa volta il tentativo si tradusse con il riconoscimento ufficiale da parte di Ben-Gurion di un organismo volto a favorire la stabilizzazione dei profughi nei paesi che li ospitavano, anche mediante accordi con le autorità arabe, in modo da non farli tornare in Israele alla fine della guerra: insomma, con finalità ben diverse da quelle auspicate da Weitz, che voleva focalizzarsi sulla colonizzazione ebraica nel territorio sotto controllo ebraico. Anche questo Comitato durò ben poco, cioè dalla fine di agosto al novembre 1948.


Conclusioni
L’esodo arabo è stato un evento molto complesso, caratterizzato sia da partenze “volontarie” della popolazione in seguito alla guerra del 1948, che da vere e proprie espulsioni da parte delle forze israeliane in ambito locale. I Comitati di trasferimento, gli unici organismi che miravano specificamente a favorire l’esodo degli arabi, nella loro brevissima esistenza non furono mai riconosciuti ufficialmente dal governo centrale se non in una forma “ammorbidita” che aveva finalità diverse da quelle che il loro fautore, Yosef Weitz, si proponeva. Di fatto, come ammette lo stesso Benny Morris, a tali comitati possono essere riconosciute le responsabilità solo su pochi villaggi evacuati.

Alla fine della guerra, nel 1949, quasi nessuno in Israele voleva il ritorno dei profughi dai luoghi in cui si erano riversati, sia tra la gente comune che tra i dirigenti: un po’ perché il conflitto si era appena concluso e si veniva da una situazione in cui gli arabi avevano da sempre ostacolato la formazione della nazione ebraica; un po’ perché gli sforzi erano concentrati nell’accoglienza dei profughi ebrei cacciati contemporaneamente dai paesi arabi; un po’ perché, come già detto, l’esodo favoriva di fatto il consolidamento dell’ebraicità del neonato Stato, cosa essenziale considerando i fini che si proponeva il Sionismo. Anche alla luce di questo si può dire che, per quanto possa essere rimasta sorpresa dalle dimensioni dell’esodo, la dirigenza dell’Yishuv non poteva certo esserne dispiaciuta.

La questione dei cosiddetti “profughi del 1948” è ancora oggi uno dei temi in assoluto più dibattuti, che spaccano nettamente l’opinione pubblica: per alcuni, fino a quando gli esuli non vedranno riconosciuto il loro diritto al “ritorno” nei luoghi da cui fuggirono, la guerra tra israeliani e palestinesi non potrà mai terminare; per altri la loro pretesa di ritorno oggi non è esaudibile, non solo perché inattuabile sul piano pratico (dato che si considerano “profughi del 1948” anche i tantissimi discendenti della popolazione dell’epoca e sarebbe impossibile assorbirli) ma anche perché pretestuosa (è ovvio che il “ritorno” metterebbe in pericolo l’ebraicità di Israele, cosa che gli arabi ancora oggi non accettano). Per alcuni l’esodo arabo da Israele fu una catastrofe umanitaria che non sarebbe mai dovuta avvenire in un paese che si dichiarava democratico; per altri invece non solo fu un evento compatibile con la fattispecie degli avvenimenti dell’epoca, ma addirittura fu insufficiente perché incompleto (molti arabi rimasero in Israele), dato che se vi fosse stata una più netta divisione tra le due popolazioni sin dal 1948, oggi, si dice, i problemi nella regione sarebbero risolti.

Mappa dei campi profughi palestinesi aggiornata alla fine del 2003. Dopo oltre 60 anni non sono stati assorbiti dai paesi dove si sono riversati. Ancora oggi c'è chi pretende l'assorbimento da parte di Israele di tutti questi rifugiati, in gran parte discendenti degli esuli arabi palestinesi del 1948.

Elenco delle parole chiave, dei luoghi e dei personaggi storici

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